PER NON DIMENTICARE ROBERTO CUBONI
“DALLA MORTE ALLA VITA”
In questo giorno ringrazio la Divina
Provvidenza per aver riservato alla mia povera persona, dopo tanta sofferenza,
una rinascita a vita nuova, grazie all’amore ed alla solidarietà di una famiglia
che, dalla tragica morte di un giovane congiunto, aveva deciso di donare i suoi
organi salvando dalla morte quanti, come me, riversavano in condizioni
disperate.
Fu così che il sabato 26 ottobre alle
ore 11.40, mentre disteso sulla mia solita poltrona aspettavo con ansia le
novità per la vita, squillò il telefono e mia moglie, con molta compostezza, ascoltò
la voce di un medico che le comunicava la tanto attesa notizia: «Signora, è arrivato
l’organo per suo marito, preparatevi con calma e recatevi subito in ospedale».
Mia moglie mi comunicò con grande
gioia, ma con altrettanta
calma, la notizia e si preoccupò di
informare le figlie e prendere la valigia già pronta per quell’evenienza.
La mia gioia non si trasformò però in
agitazione e, come nel precedente grave episodio, affrontai la situazione con
molta lucidità e freddezza.
Decisi subito che sarei andato con la
mia macchina e alla guida ci sarebbe stata la mia figlia più giovane. Non chiesi
nessun aiuto alle forze dell’ordine ed in poco tempo ci avviammo verso l’ospedale:
io e Domitilla davanti, mia moglie dietro, muniti di un fazzoletto bianco da
sventolare assieme al suono del clacson per segnalare l’urgenza.
Seguivo con molta attenzione la guida
sicura di mia figlia e provvedevo ad ammonirla per mantenere la calma e non
forzare i blocchi dei semafori rossi ma attendere che le auto lasciassero il
passaggio alla nostra improvvisata ambulanza familiare. Al semaforo rosso di
Elmas, con una coda di decine di auto, le auto che ci precedevano, come per
incanto, si spostarono lasciando un varco per la nostra auto che proseguì la
corsa verso la speranza della mia rinascita.
Dopo una decina di minuti intravidi,
come un’oasi nel deserto, il pallido, arido colle di San Michele e ai suoi piedi
il monolitico edificio grigio-cemento dell’ospedale Brotzu. Mai tale abituale e
visitata immagine, dominata dall’arido sfondo del colle alla cui base si
ergevano questi sembianti carcerari, “grigi bracci di cemento”, aveva prodotto
in me sensazioni indescrivibili di pacata, profonda e rassicurante serenità
interiore: stavo vivendo una sorta di esodo metropolitano verso la terra promessa
per la rinascita a vita nuova. E tutto ciò era cosa buona, nel divino e
misterioso disegno Assorto in quella sorta di estatica visione, varcai
l’ingresso della clinica e raggiunsi il quarto piano, dopo circa un’ora dalla
chiamata telefonica delle 11.40 e dopo undici
mesi di lista d’attesa.
Cominciarono subito le operazioni
preparatorie al tavolo operatorio del trapianto; ad iniziare dalla depilazione totale
del mio irsuto corpo, per finire nella pre-anestesia.
Quelle tre ore di preparazione
trascorsero velocemente senza
traumi in preda a un’indicibile calma
e serenità: debbo confessare
che, contrariamente al passato
trascorso nell’attesa, non provai nessun sentimento di paura. Molto di questo, posso
dire oggi, si doveva in buona parte alla presenza accogliente, discreta e
profondamente umana di Alessandro Ricchi, il compianto cardiochirurgo che mi
avrebbe cambiato la vita fisica e anche tanto, tanto altro, che porto dentro di
me e che riscontro, in modo ancora più evidente, in mia moglie e nelle mie
figlie.
Il
dado è tratto!
L’anestesia cominciò a fare il suo
primo effetto con una certa sonnolenza. Nudo come quando sono uscito dal seno
di mia madre, ricoperto da un lenzuolo, venni adagiato sulla lettiga che mi
avrebbe portato nella “sala travaglio” per affrontare il nuovo parto della mia
seconda nascita.
Dopo aver abbracciato mia moglie
Rosella e le mie figlie, mi congedai da loro con un inusitato ed inspiegabile saluto,
in limba: “Forza paris!”, un invito all’unità solidale della famiglia.
In effetti, riemergeva con forza il
sacramentale giuramento sponsale pronunciato trent’anni prima, mantenuto saldo
e inalterato e sostenuto dalla profondità del nostro prezioso dono della fede
in Cristo.
Il mio carissimo dottor Ricchi
intanto abbracciò mia moglie, incoraggiandola e sostenendola con il suo sguardo
e le sue parole. Senza nascondere niente, ma con realismo e umana saggezza,
verbalizzava – tutto questo naturalmente l’ho conosciuto a posteriori – le
difficoltà e gli imprevisti correlati alla complessità dell’intervento
chirurgico.
Tra le tante cose dette, una in
particolare aveva colpito, ma non scoraggiato mia moglie: “Adesso tutto è
pronto per il trapianto, ma la riuscita dell’intervento comincia dal momento in
cui metterò le mani sul cuore nuovo per essere certo di poterlo inserire nel
petto di suo marito”.
Quel colloquio e quello sguardo
resteranno stampati nel cuore e nell’anima della mia consorte e, ancora oggi sono
vivi e palpitanti quando ricordiamo insieme la triste e meravigliosa avventura
della nostra comune esistenza.
Il corteo di medici che circondava il
letto mobile su cui giaceva il mio corpo, ormai quasi privo di conoscenza, raggiunse
l’ascensore ed entrò nella sala operatoria mentre io, con il tremolio del
freddo anestetico, precipitai nel buio profondo, per risvegliarmi il giorno
successivo: domenica mattina 27 ottobre 2006, il Giorno del Signore della XXX Domenica
del tempo ordinario,
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mentre il quotidiano “L’Unione
Sarda”, nella pagina di cronaca della provincia di Nuoro, annunciava la
sepoltura del giovane donatore e l’incommensurabile dono dei suoi organi:
Ultimo
regalo di Roberto: organi donati
LANUSEI
- È morto ieri mattina alle
9,30 nell’ospedale Brotzu di
Cagliari
Roberto Cuboni, il giovane di Lanusei (20 anni) che venerdì pomeriggio si era
schiantato contro un muro mentre percorreva la via Umberto sulla sua moto. Per
la velocità elevata, il ragazzo aveva perso il controllo della “Suzuki” in
prossimità di
una
curva finendo fuori strada. Sprovvisto di casco, aveva battuto
violentemente
la testa rimanendo travolto dalla moto.
I
soccorsi - dopo alcuni passanti sono intervenuti i vigili del fuoco, la polizia
stradale e l’ambulanza ospedaliera – sono stati immediati. Trasportato al
pronto soccorso già in coma, Roberto Cuboni è stato visitato dai medici che,
viste le sue condizioni, ne hanno disposto l’immediato trasferimento a Cagliari,
dove gli specialisti della neurochirurgia non hanno potuto far nulla per
salvarlo. A Roberto Cuboni sono state fatali le gravissime lesioni al capo e
all’addome.
I
familiari hanno autorizzato l’espianto degli organi. I funerali oggi.
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Il diario di quelle interminabili
lunghe ore di passione l’appresi da mia moglie, dalle mie figlie e dai generi: sono
rimasti dalle 16.00 del sabato fino alle 21.00, per l’intervento, e fino al
risveglio delle 7.00 dell’indomani mattina in attesa spasmodica, in piedi,
nell’andito di fronte all’ingresso della porta gialla della terapia intensiva.
La fortuna volle che un medico amico,
autorizzato ad entrare in sala operatoria, esercitasse nei confronti dei
parenti la preziosa, deterrente e psicoterapeutica attività di “cronista”
dell’evento, informandoli periodicamente dell’andamento dell’intervento, fino
alla comparsa dell’agognata figura, esausta ma rassicurante, del dottor Ricchi
che annunciava il risultato positivo del trapianto e del normale decorso
post-operatorio. Ma i miei due generi avevano avuto una preventiva e furtiva
anticipazione perché, appostandosi nei pressi dell’ascensore del quinto piano (blocco
operatorio della clinica), avevano assistito da lontano al corteo dei medici, dall’aria
stanca ma soddisfatta, mentre riportavano la lettiga con il mio corpo –
circondato da una miriade di cavi elettrici e strumentazioni varie – alla sala
di terapia intensiva del quarto piano del reparto di cardiochirurgia.
In particolare la cronaca aveva già
registrato che, intorno alle 20.00, il mio vecchio e malato cuore era stato
prelevato ed al suo posto era stato “posizionato” (nel linguaggio professionale
del cronista) il nuovo organo, mentre proseguivano le operazioni successive
fino al momento fatidico – che fa tremare i polsi ai sanitari impegnati
nell’intervento – della partenza del nuovo cuore con una stimolazione
elettrica.
Operazione decisiva che talvolta, in
casi rarissimi, può, dopo anche varie stimolazioni, non riuscire. Nel mio caso
il nuovo motore partì al primo colpo con la gioia e l’esultanza dei presenti,
tranne ovviamente la mia, perché giacevo privo di coscienza, ma finalmente
rinato a vita nuova.
La spasmodica e lacerante attesa dei
miei parenti di vedermi, ed in particolare di mia moglie, fu soddisfatta subito
dopo: il mio genero Riccardo che, con la scusa di dover partire per Roma
l’indomani, accompagnò Rosella sostenendola, in tutti i sensi, durante
quell’incontro tanto atteso, ma con una serie di possibili reazioni emotive,
gioiose da una parte e penose dall’altra, per la visione inusitata del marito:
intubato, cosparso di fili e circondato da numerose strumentazioni.
Rosella però superò molto bene lo
choc e rimase benevolmente
impressionata alla visione delle mie
labbra, con occhio sponsale percepiva il contrasto tra il colore roseo e quello
ceruleo dei mesi pregressi: un primo piccolo, ma rasserenante segno esteriore,
nel primo entrar nella grande camera della terapia intensiva.
Non avrebbe mai più voluto
distogliere lo sguardo, sarebbe voluta restare vicino, e ascoltare il respiro
vitale come aveva fatto per tanti lunghissimi mesi, insonne, sul guanciale del
letto nuziale, amorosa e protettiva guardia, custode e indiscreta amante del
mio esile corpo che si andava spegnendo per effetto della grave eredità
paterna. Invitata a lasciare la camera e rientrata nell’andito, nei pressi
della fatidica porta della terapia intensiva, fu raggiunta dalla “sarda e
austera dottoressa Falchi” che, con il suo solito, chiaro e conciso parlare, la
invitò a rientrare a Iglesias: «Suo marito sta bene e siamo noi che ci
prenderemo cura di lui».
Quelle parole, quel burbero benefico
colloquio, anche se difficile da condividere in quel frangente, la convinsero comunque
dell’opportunità di lasciare l’ospedale che, in verità, non offriva nessuna
accoglienza logistica di soggiorno.
L’accompagnarono mie figlie e i due
generi e, dopo una quarantina di minuti, raggiunse la casa vuota. La persona
più
“tranquilla” ero proprio io, supino
ed incosciente, circondato
dalle amorevoli cure degli operatori
sanitari: monitorato
e controllato a vista dalle guardie
del corpo.
La prima ripresa di coscienza mi
dissero che avvenne dopo circa quindici ore dagli effetti dell’anestesia,
intorno alle 7.00 di domenica 27 ottobre 1996: la voce calda di un uomo mi
sussurrò all’orecchio: “È andato tutto bene”. Ho motivo di ritenere che fosse
la voce del primario anestesista, il dottor Pettinao, al quale, ormai, mi lega
una fraterna amicizia e collaborazione alla causa comune della donazione e del
trapianto degli organi. La ripresa di conoscenza fu lenta e progressiva,
lasciando impresse immagini e fatti, talvolta labili e confusi. I ricordi
costellati di suoni, di odori, di immagini di sensazioni fisiche presero corpo
e sostanza nelle
quarantotto ore successive alla prima
percezione di ripresa di
conoscenza.
Quello più impresso nella mente, dopo
le parole iniziali del primo risveglio, è stato sicuramente il rumore continuo del
respiratore artificiale e la campana che suonava per avvisarmi, assieme alle parole
di un’operatrice sanitaria che mi incoraggiava dicendomi che dovevo cominciare
a respirare con i miei polmoni: «Adesso cominci a respirare da solo… poi … din…
din… din, respiri, signor Maccioni, su respiri… bravo, bene, così…». Questo fu
l’esercizio e queste le voci, fino alla completa autonomia respiratoria.
GRAZIE
ROBERTO PER ILTUO DONO!
In questo
18° anniversario della tua morte
E così rinascevo a VITA NUOVA grazie
al dono incommensurabile del giovane cuore di Roberto ed al gesto di
solidarietà della sua famiglia che ho scoperto dopo otto anni da questa
meravigliosa avventura. Adesso la mia famiglia è diventata più numerosa si è “allargata”
LANUSEI
La famiglia allargata
Giampiero Maccioni
Iglesias 26 Ottobre 2014
18°anniversario della mia rinascita con
un trapianto di cuore
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